C’è un’immagine che mi piace evocare, all’inizio di questo viaggio: un uomo antico, nudo sotto il peso di un cielo smisurato, che scopre per la prima volta il tempo. Non l’ora, non i cicli del sole o della luna — quelli li conosceva già — ma qualcosa di più intimo e terribile: la certezza che ogni passo, ogni respiro, ogni battito avanza verso un punto oltre il quale non potrà più andare.
La mortalità, per quell’uomo, non fu una condanna. Fu una rivelazione. E forse il primo vero dono.
Perché è facile pensare alla morte come a una sciagura, un errore di fabbricazione da correggere con tecnologie sempre più arroganti. Ma basta fermarsi un momento, zittire il brusio delle nostre paure, per accorgersi che senza la mortalità non ci sarebbe nulla di ciò che più amiamo dell’essere umano. Nessuna arte, nessuna poesia, nessuna filosofia, nessuna scintilla di disperata bellezza. Perché senza fine, tutto sarebbe uguale a se stesso; e senza perdita, nulla avrebbe valore.
Le antiche civiltà, meno presuntuose della nostra, avevano intuito questo paradosso. Gli Egizi imbalsamavano i corpi non per negare la morte, ma per accompagnare il defunto nel suo viaggio oltre la soglia. I Greci cantavano l’eroismo proprio perché era effimero, destinato a svanire come il fumo dei sacrifici. E gli alchimisti medievali cercavano l’immortalità non per restare aggrappati a questa terra, ma per ascendere a una perfezione spirituale che, paradossalmente, richiedeva il morire a se stessi.
Noi moderni, invece, sembriamo aver preso la via opposta. Viviamo come se fossimo padroni del tempo, imbottendoci di illusioni tecnologiche, promettendoci l’eterna giovinezza con un’iniezione, un algoritmo, un’ibernazione a buon mercato. Ci muoviamo come sonnambuli, dimenticando che la vita senza morte non è vita, ma stagnazione, prigionia in un eterno presente senza sapore.
Eppure, se ascoltiamo con attenzione, possiamo ancora percepirlo: il battito segreto che dà ritmo a ogni nostro gesto. Sappiamo che ogni incontro è irripetibile, che ogni amore è un rischio tremendo proprio perché può finire, che ogni addio pesa perché è reale. Ed è questa fragilità che rende ogni istante degno di essere vissuto fino in fondo.
La mortalità è la misura del valore. È la spada che pende sulle nostre teste a ricordarci di non sprecare il tempo a desiderare l’impossibile, a rimandare ciò che davvero conta. È la voce che sussurra che ogni tramonto è l’ultimo di una lunga serie unica e irripetibile. È l’artefice invisibile di ogni gesto eroico, di ogni gesto d’amore, di ogni opera che valga la pena di essere ricordata.
Alla fine, non resta che inchinarsi davanti a questo strano miracolo: siamo creature destinate a svanire. Ed è proprio per questo che possiamo brillare.
Non siamo fatti per durare per sempre.
Ed è questa condanna a renderci infiniti.